Abbiamo tutti difficoltà ad affrontare il discorso della morte. Non si ha paura tanto per la propria, quanto per quella delle persone a cui vogliamo bene.
Al contrario di altri popoli non arriviamo quasi mai pronti a quel momento. Come fosse un gesto scaramantico non mettiamo mai in ordine situazioni ereditarie e altri vincoli testamentari. Nei film americani ad esempio c’è sempre qualcuno che lascia un testamento! Chi rimane con i piedi per terra così, oltre al dolore, deve anche gestire un complesso sistema di attori pubblici e privati che, capita, non hanno nemmeno il tatto per chiedere il loro compenso.
Nella cultura anglosassone, per non andare troppo lontano, il dolore della morte viene condiviso con la comunità organizzando un banchetto dopo la cerimonia funebre. Si festeggia il passaggio della morte, si augura al defunto di proseguire in un altro luogo la sua felicità.
In Italia, nella profonda campagna, troviamo donne velate di nero che partecipano al dolore, piangendo e battendosi il petto, anche se non conoscono il de cuius.
Nei grandi agglomerati urbani si sentono le campane rintoccare lentamente, mentre parole di elogio per il fu vengono sbrodolate dalle bocche di tutti i presenti.
La morte ti cambia.
Si, è verissimo. Soprattuto se muore un genitore che ti sostentava, un compagno che ti amava, un parente che adoravi.
Una delle più grandi difficoltà dei nostri tempi, probabilmente legata al forte consumismo economico, è quella di lasciare andare l’altro.
L’altro è un amore terminato, l’altro è qualcuno che non ci vuole, l’altro è, nel percorso naturale delle cose, chi conclude il suo tempo dopo aver abbracciato per anni la vecchiaia.
Il dolore per la perdita è un dolore per la mancanza.
Urliamo spesso “perché mi hai lasciato?” più raramente “perché te ne sei andato?”. Ma quando raccontiamo agli altri diventa “se ne è andato”, più raramente “mi ha lasciato”.
Sfumature che colorano in toni di grigio una composizione sociale dove la fine è necessariamente dimostrare agli altri l’amore provato con il dolore messo in scena. Romanzato.
Più della morte, spaventa la malattia.
È la fragilità dell’uomo che spaventa. Comprendere come non siamo immortali, come non abbiamo ipotizzato che la persona che ci ha sostenuto possa smettere da un momento all’altro. Il disarmo di chi era forte, che s’abbandona.
Il tema è delicato perché ha a che fare con il dolore. E di questo bisogna portare rispetto.
Ognuno è – o non è – in grado di gestire quello stato emotivo derivante dal lutto. Certo si può ricorrere ad un supporto, ad un mentore o rivolgere gli occhi al cielo.
Per superare un momento così delicato abbiamo la necessità del tempo che non è solo guaritore. Abbiamo bisogno del tempo per comprendere che nell’arco della vita, lunga o breve che sia, ognuno di noi ha una storia da raccontare.
Si potrà togliere attimi alla vita con le paure e col dolore oppure vivere dando linfa al ricordo. Sicuramente molte possibili strategie possono essere messe in atto, di certo rimane un vuoto da dover colmare abbracciando il sorriso di chi rimane ancora accanto.
pubblicato su www.psicologionline.net